"Non parteciperemo al genocidio": chi sono i refusniks, giovani israeliani che rifiutano la leva

“Non prendiamo parte al genocidio. Resisti, rifiuta!”. Con queste parole l’attivista israeliano per i diritti umani Itamar Greenberg accompagna un video postato sui suoi profili social: diversi giovani, riuniti in una piazza della capitale, compiono un gesto carico di simbolismo, bruciando in pubblico gli ordini di leva ricevuti.
Il 15 luglio 2025, in pieno centro a Tel Aviv, è andata in scena una forma coraggiosa di dissenso civile. A organizzare la protesta è Mesarvot, la rete dei "refusniks", i giovani israeliani che rifiutano il servizio militare obbligatorio nelle Forze di Difesa Israeliane (IDF), dichiarandosi contrari a prendere parte a quella che definiscono apertamente “l’occupazione” dei Territori Palestinesi.
Un gesto radicaleIl rifiuto del servizio militare in Israele non è una semplice obiezione di coscienza: è un atto politico, spesso punito con la detenzione. La legge israeliana prevede infatti che il servizio militare sia obbligatorio per tutti i cittadini e le cittadine a partire dai 18 anni, tre anni per gli uomini, due per le donne. Il rifiuto, se non giustificato da motivi religiosi o di salute certificata, può portare a pene detentive, anche ripetute.
“La maggior parte degli adolescenti che vedete nel video ha scontato o sconterà alcuni mesi di prigione per aver rifiutato di arruolarsi”, scrive ancora Greenberg in un post pubblicato su X. E aggiunge, con fermezza: “Noi ci rifiutiamo!”.
“Non parteciperemo al genocidio”Le parole usate dai giovani attivisti sono dure, dirette, senza mediazioni: “Non prenderemo parte al genocidio. Non presteremo il nostro servizio all’apartheid. Resistiamo. Rifiutiamo”. Accuse gravi rivolte al proprio Paese, che riflettono la profonda frattura interna alla società israeliana, in particolare tra le giovani generazioni, rispetto alla guerra in corso nella Striscia di Gaza, al trattamento dei palestinesi e al crescente autoritarismo del governo guidato da Benjamin Netanyahu.

Qualche giorno prima, durante la sfilata del Pride di Gerusalemme, alcuni attivisti progressisti del movimento Mehazkim hanno denunciato di essere stati obbligati dalla polizia a rimuovere materiali con messaggi contro la guerra. Un video pubblicato sulla pagina Instagram Voice Against War mostra cartelli che recitano “No Pride in genocide” e uno striscione con la scritta “Resist genocide”. Nelle clip successive, l’intervento della polizia, che cerca di strappare lo striscione ai manifestanti. Le forze dell’ordine avrebbero motivato l’azione sostenendo che l’evento “non era politico”.
Il movimento Mesarvot è nato proprio da questo clima di crescente polarizzazione. Il termine stesso significa “noi rifiutiamo” e raccoglie studentesse e studenti, pacifisti, intellettuali e famiglie che supportano la scelta - spesso rischiosa - di disobbedire.
Una resistenza visibile, ma minoritariaVa ricordato che i refusniks, pur ricevendo grande attenzione mediatica, rappresentano una minoranza rispetto al sentimento generale della società israeliana, che storicamente ha visto il servizio militare come parte integrante del patto sociale e identitario dello Stato. Tuttavia, proprio in questi mesi, segnati da una delle fasi più intense e controverse del conflitto, questa minoranza sembra più determinata e visibile che mai.
Mesarvot non è il solo collettivo a portare avanti queste istanze. Già in passato gruppi come Breaking the Silence (formato da ex soldati che denunciano gli abusi commessi nei Territori) avevano aperto una breccia critica nel monolitismo dell’apparato militare israeliano. Oggi, tuttavia, la protesta si fa più netta: non si tratta più solo di raccontare quello che succede "dentro", ma di rifiutare in toto l’ingresso nel sistema militare.
Una nuova generazione, un’altra visioneMolti di questi giovani sono cresciuti in una realtà digitale e globale, dove l’accesso alle informazioni – anche su ciò che avviene a Gaza – è immediato. La loro identità politica è sempre più modellata da valori internazionali di giustizia sociale, diritti umani e anticolonialismo. In questo senso, la loro lotta dialoga con altri movimenti nel mondo, da Black Lives Matter a Fridays for Future, fino alle proteste studentesche filo-palestinesi che attraversano i campus universitari di Europa e Stati Uniti. Il loro messaggio è chiaro: "Non in nostro nome".
Luce